martedì 13 novembre 2012

Flying with Ryanair

In prinicipio fu Alitalia o Meridiana, a seconda dell'aeroporto di partenza. Correva l'anno 2001 io ero un timido studentello fuori sede al primo anno di università e le compagnie "low cost" una lontana ipotesi. Spendevo cinquecentomila lire a volo, limitando cosí i miei ritorni a casa alle sole feste comandate e partivo ad orari assurdi, tipo le sei e mezza di mattina, a cui aggiungere un odissea che cominciava almeno quattro ore prima per raggiungere lo scalo, farmi checkinare (non da uno col fucile di precisione appostato incima ad un palazzo peró...) ed infilare il bagaglio da stiva su di un rullo, dopo averlo fatto etichettare dalla signorina di turno.
I miei compagni di viaggio erano eleganti Signori in doppiopetto, che vestivano Burberry e profumavano di Penhaligon's, giustificando cotanto british style con l'essere dei manager in carriera che facevano su e giú tra la Sardegna e il "continente". Le regole del galateo non erano troppo dissimili da quelle di un ciricolo privato, con gli ospiti che ordinatamente si accomodavano su posti preassegnati e restavano in attesa che un'hostess dai tratti delicati e femminei porgesse loro quotidiano da sfogliare, salvietta rinfrescante, caramelle e colazione. Magari ogni tanto ci si scambiava un'occhiata d'intesa col vicino di posto, sempre peró con grande understatement e distaccata cortesia.
Anni dopo un qualche zelante politico s'inventó la storia della continuità territoriale. Praticamente la regione se eri nativo o residente ti pagava metà del biglietto o giú di lí, con l'unico inghippo che le compagnie aeree, fiutato l'affare, iniziavano a marciarci dentro, peggiorando la qualità del servizio a scapito dei nuovi clienti "plebei" e levando ai poveri cristi come il sottoscritto i privilegi del biglietto a prezzo pieno. Quindi: no salvietta, no giornale, no colazione e caramella forse (alquanto stantia peró).
Poi, quando i nativi non residenti sono stati esclusi dalla tariffa agevolata per lo scrivente è cominciata l'era Ryanair.
Ricordo che gli albori la compagnia praticava delle tariffe da urlo, tanto che per il volo inaugurale da Parma a Londra io ed i miei allegri compari avevamo sborsato si e no tre euro a cranio. Ma quel che voglio raccontare ha a che fare in maniera solo marginale con i prezzi. Viaggiare made in Ireland è una sorta di avventura all'ultimo respiro ed all'ultimo giro ne sono successe veramente di tutti i colori. Il fatto che la compagnia prevedesse il check in on line ed il fatto che in vista della partenza avessi deciso di soggiornare a poca distanza dall'aeroporto non mi ha certo salvato dall'imponderabile. Giunto sul posto con quasi due ore d'anticipo sull'orario di partenza del volo notavo una strana fila di fronte ai controlli di sicurezza. Camminavo per quasi settecento metri, ripercorrendo a ritroso quella marea umana, senza riuscire a trovare l'inizio dell'immenso serpentone. Che manco a dirlo, cominciava laddove finiva fisicamente l'aeroporto. Ricapitolando: qualcosa come due o tremila persone in fila, dieci addetti per circa cinque metal detector, diverse centinaia di metri da percorrere (con l'ultimo tratto labirintato) ed un volo in partenza. Queste sono le classiche circostanze in cui gli esseri umani danno il peggio di sè. Il mio angolo d'umanità era rappresentato da una suora che tentava il sorpasso ai box in danno degli altri viaggiatori, un signore distinto ed una badante rumena con prole al seguito. C'erano anche un paio di coppiette incredibili, nel senso che i due componenti maschili, conosciutisi in ufficio tre o quattro giorni prima avevano deciso di organizzare una vacanza di gruppo con le rispettive compagne, cosí che faticavo seriamente a capire chi tra loro fosse piú a disagio, mente organizzatrice a parte. Che poi era il lui della coppia meno giovane, il classico tipo alla vorrei ma non posso che cerca sempre di fare lo splendido. Di quelli che hanno il portachiavi di Cartier ma una vecchia Punto in garage e parlano di posti esotici e modelle anche se l'estate prima sono stati in vacanza con la nonna novantenne a Cesenatico. Mentre ragionavo su quanto tempo avesse impiegato a coinvolgere nei suoi diabolici piani il suo compare dalla faccia decisamente grulla, realizzavo che stante la velocità della fila, che avanzava rapida come un bradipo zoppo il mio volo era da considerarsi a rischio. Pensiero, peraltro, condiviso anche dai miei vicini di fila, che iniziavano a dare chiari segni d'insofferenza, ognuno a proprio modo. La suora abbatteva a colpi di trolley un'elegante signora che aveva provato a passarle avanti adducendo strane scuse, assolvendo peró la malcapitata dai propri peccati prima di sferrarle il colpo di grazia. La rumena, invece, iniziava a piangere e lanciare maledizioni zingaresche, chiedendoci di passare avanti in nome dei figli. Mentre io tentavo una difficile mediazione, spiegandole che ero nella cacca almeno quanto lei, il signore distinto di qualche rigo fa, prima la ammoniva sul fatto che gli stranieri come lei fossero irrispettosi delle regole italiane e poi, afferrandosi ad un divisorio, saltava ben due incanalamenti della zona labirintata, lasciandosi alle spalle almeno duecento persone. Mentre, con l'ausilio di voce e diaframma scandivo all'indirizzo del soggetto in questione un sentitissimo "Vaffanculo!!!" m'inerpicavo a mia volta sul divisorio, deciso ad arrivare al gate anche a costo della vita. La diretta conseguenza della mia azione era una di quelle scene che si vedono soltanto nei film apocalittici. Una marea di gente in procinto di perdere il volo seguiva il mio esempio, non so se per saccagnarmi di botte o per un atto di pura ribellione verso l'autorità preposta. Fatto sta che i poveretti venivano faticosamente arginati dalla vigilanza mentre tre guardie mi si paravano davanti minacciose. Cos'è il genio dunque?! Fantasia, intuizione, colpo d'occhio e velocità d'esecuzione. Cosí dopo aver riasettato il mio trench osservavo i tre tutori dell'ordine con sguardo pensoso e commentavo "È davvero disdicevole che la gente non sappia rispettare le file" I tre, dapprima sbigottiti, si scusavano e con deferente ossequio mi lasciavano passare oltre. Mi sentivo come il personaggio del film "Fuori in sessanta secondi" anche se di minuti me ne restavano sette e dovevo raggiungere il piano superiore dell'aeroporto. Ma le mie sfighe viaggianti non erano cessate. Una guardia s'interessava ad un sacchetto di riso dentro al trolley, salvo poi desistere davanti alla mia minacciosa offerta di una cenetta a due a base di zafferano e barbera. Poi seguiva la corsa folle verso il gate di riferimento, che nei moderni aeroporti è raggiungibile solo dopo esser passati per un dedalo di negozi del duty free, dopo essersi persi ed aver sacramentato piú e piú volte.
Alla fine arrivavo a destinazione, piú morto che vivo ma vincitore. Senza peró aver fatto i conti con quella cosa chiamata imbarco.
Innanzitutto misurano il bagaglio, facendotelo infilare in una gabbia ferrosa, progettata apposta per far si che tutti i tuoi miseri averi ci si incastrino dentro, senza possibilità di recupero. Le hostess se ne fregano se il trolley di un malcapitato si pianta lí dentro, allertando semplicemente gli omini delle pulizie, qualora un anziano passeggero cada a terra esanime dopo aver cercato invano di liberare il proprio bagaglio a mano dal diabolico strumento. Ovviamente quelle piú in difficoltà di tutti sono le donne con la borsa di Mary Poppins a tracolla, che hanno già stivato la valigia al limite delle possibilità umane e vengono messe davanti alla scelta di salire a bordo con un unico collo o non partire affatto.
Dopo ti scaglionano e strappano via metà del foglio A4 che costituisce il biglietto di viaggio. Prima passano avanti i passeggeri che alla modica cifra di tre euri hanno acquistato un diritto di priorità, peraltro molto relativo, nel senso che la marea umana di non paganti viene sguinzagliata alle loro spalle cinque o sei secondi dopo, che sono effettivamente pochini per salvarsi la vita. Cosí i malcapitati (quasi sempre anziani in sedia a rotelle o famigliole con bimbi in passeggino) vengono probabilmente trucidati dalla calca durante le operazioni si salita a bordo o, meglio, arrembaggio.
Il tutto assomiglia all'arrivo di un container pieno di cibo in una qualche zona del terzo mondo. Tutti ci si fiondano addosso in preda ad una sorta di estasi mistica, decisi a conquistare il proprio posto. I pochi metri che separano l'aeromobile dal terminal sono fondamentali. Io sceglo sempre di salire a bordo dalle porte posteriori. Quelle davanti sono piú vicine e quindi vengono subito ingorgate da vecchi e bimbi minchia, che in tema di lungimiranza sulla strada da seguire hanno molto in comune con la pecora media. Quí è tutto un fatto di agilità, nel senso che se vuoi viaggiare senzala valigia tra le gambe devi essere sufficientemente lestro a lanciare il trolley sulla cappelliera e, col movimento di richiamo (triplo carpiato con avvitamento) disporti sul sedile. Nel corso di questi viaggi spero sempre che mi capiti vicino qualche persona interessante, magari un'abile conversatrice con cui combattere il senso di claustrofobia che danno i sedili ultra ravvicinati. Cosa che ahimè non capita mai. A questo giro, per esempio, mi è toccato in sorte un tamarro. Di quelli veri, con sopracciglia rifatte, tatuaggi a gogó ed evidenti menomazioni della favella, capace solo di gorgogliare qualcosa, in tono alieno, quando un altro passeggero, colto da improvviso attacco di panico ha deciso di non partire piú, costringendo tutti quelli che avevano bagagli in stiva a scendere dal mezzo e riconoscere il prorio borsone, per scongiurare il rischio di attentati terroristici. Scena finale dedicata ad un ometto di mezza età, reo di aver aperto la cappelliera in fase di atterraggio: una voce gutturale, tipo SS levatasi dagli altoparlanti, gli intimava un minaccioso "chiudaimmediatamentequellacappellieraperlasuasicurezzaequelladeglialtripasseggeri". Lui al pari del pinguino Kowalsky sprofondava suadente sotto al sedile sussurrando un "....Tu non hai visto niente...".
Poi, tanto per dire sono anche arrivato a destinazione ...papparapapparaparapapa (musichetta trionfale da atterraggio, che mi da sempre l'idea del "anche stavolta siamo sopravvissuti")

giovedì 8 novembre 2012

Tornare a casa a novembre...

...è un pó come ammettere di avere una qualche questione irrisolta o forse solo la voglia di ripartire da lí dove tutto si era fermato.
Magari consiste anche nell'idea piú o meno inespressa di dover crescere, anche e soprattutto quando vorresti tornare piccolo, misurando la differenza tra ció che eri e ció che sei attraverso l'impietoso metro del cambiamento.
Concretamente implica il fatto di andare a trovare la mamma in cimitero quasi tutte le mattine, il pranzo dalla nonna a mezzogiorno e due lunghe camminate in mezzo alle vie dei ricordi, inesorabilmente uguali a se stesse.
È l'inevitabile contraddizione del dover distinguere i pochi che sono effettivamente felici di vederti e si preoccupano di come stia andando la tua vita dai tanti che gioiscono di tutto cuore nell'apprendere dalla viva voce del diretto interessato che le cose hanno preso una gran brutta piega.
Forse e dico forse potrebbe anche estrinsecarsi in un nuovo divano color tabacco su cui poltrire ore ed ore in attesa dell'ispirazione.
Significa magari allineare davanti a se tre vecchi cellulari e ripercorrere mentalmente un sentimento in formato sms. Perchè alcuni non riesci proprio a cancellarli.
E'la mancanza che percepisci tra la cucina ed il salotto, la voglia di raccontare la tua storia del giorno a qualcuno che non c'è, imparando faticosamente a comprendere il significato della parola assenza.
Insomma, tornare a casa a novembre puó rivelarsi un'idea contraddittoriamente infelice, non fosse altro per il fatto che il mese in sè ha la naturale tendenza a rubare qualche metro di speranza a chi lo incontra. Resta sempre, alla fine, il desiderio di ripartire, in considerazione del fatto che non si è mai abbastanza prudenti nel frapporre una ragionevole distanza tra se e i ricordi.