venerdì 9 dicembre 2011

Shopping time

Domani mi farò del male più o meno consapevolmente. Nel senso che le mie sempre più disastrate finanze dovranno sottostare all'ordalia natalizia dei regali, con tanto di ossessione da shopping compulsivo che matematicamente, ogni anno,ha la meglio sulla mia consueta morigeratezza. A dir la verità tra oggi e ieri sono già volati parecchi euri, in barba alla crisi e alla saggezza, che di tanto in tanto imporrebbe delle serene riflessioni, prima di affilare bancomat e carte di credito cercando il contatto visivo con la commessa di turno. Finora abbiamo un quadro di Jack Vettriano e un inutile prodotto Apple. Voglio rassicurare chi legge: il quadro è una sorta di replica, anche perchè se avessi i soldi per comprare l'originale, non sarei certo quì a inventarmi strani artifizi contabili per far quadrare il budget. E poi non è neanche per me, ma per qualcuno, che al momento, ha una quantità industriale di muri vuoti, ragion per cui mi sembrava carina l'idea di iniziare a riempirli. Sistemata la mamma, con un dittico comprendente tazzine bialetti e cuscino ergonomico pagato al prezzo di un collier di diamanti, resta fuori il papà, che l'anno scorso mi ha fatto cordialmente capire che il centocinquantaseiesimo maglione di fila non aveva riscosso particolari consensi. Non so proprio come uscire dall'impasse. Perchè lui ha gusti anacronistici che si contrappongono al mio attivismo avanguardista e per di più, coltivo la pessima abitudine di scegliere i regali per gli altri come stessi comprando qualcosa per me stesso.
Ciò che temo di più della mattinata di domani è il particolare death loop in cui mi esibisco durante gli acquisti per il Natale. Nel senso che entro in un  negozio deciso a comprare una cosa X e poi mi innamoro anche di Y e Z. A risolvere questa difficilissima equazione logico-matematica arriva sempre una commessa. Una di quelle ragazze carine coi capelli a caschetto e gli occhialini da finta intellettuale, talmente deliziosa che vorresti quasi chiederle di uscire a cena se non fossi accasato. Sono convinto che da anni si tratti della stessa persona. O quantomeno dello stesso fenotipo. Probabilmente le clonano, prendono informazioni su dove andrò a far compere e ne piazzano una per negozio.
Basta poco, in fondo. Qualche frasetta carina sul mio ottimo gusto, un paio di risate alle mie inascoltabili freddure e quella faccia da dolce maestrina che aspetta solo la tua miglior risposta per regalarti un bel dieci e lode. Così finisco sempre per prendere la cosa più cara, o ancor peggio prendere un regalo doppio, salvo poi maledire la mia dabbenaggine da scolaretto degli acquisti appena varcato l'uscio. Un altro problema che mi affligge in questo periodo è l'eccessiva generosità (leggasi: prodigalità). Per esempio domattina dovrò acquistare un paio di pacchi regalo nella mega-gastronomia d'essai che ho la fortuna/sfiga di avere sotto casa e so già che a ogni occhiolino dell'avido addetto al banco, sui salumi, sui vini e sulle delizie da aggiungere al pacco, risponderò con il più classico dei "Ma si, mettiamo anche quello!". Sarà che odio far la figura del taccagno o più semplicemente mi piace che le persone si ricordino di me un giorno per quanto sono stato generoso e non per un eventualmente sgradevole braccino corto. In fondo meglio non regalar nulla piuttosto che fare un regalo brutto. E al mio regalo chi ci pensa? Io, tutte le notti. Non so se mi basteranno i soldi o se dovrò saltare i pasti da quì a Pasqua, ma me lo voglio concecedere lo stesso. Così, un bel giorno, pensando a me stesso potrò esclamare "Cavolo com'era generoso quello là!"

giovedì 17 novembre 2011

Prequel

Questa storia inizia con un messaggio abbandonato in rete, alla ricerca di un destinatario ipotetico e finisce con una decisione assolutamente tardiva.
"Oggi mi sono fatta un giro per il centro, uscita dall'università. Credo  sia la prima volta che succede da quando è iniziato l'autunno. Un momento di vuoto. E' stato questo. Peccato che  quelle rare volte in cui mi concedo un momento di vuoto, tu ne approfitti subito per riempirlo"
 Correva l'anno 2008 e l'incipit virgolettato di cui sopra diventava, in una giornata di agosto, la cura miracolosa ed improvvisa contro la mia solitudine, dopo un'estate foriera di titoli di coda e  cattivi pensieri.
 Non ho mai saputo niente dell'autrice di questo brano di cui riporto solo un piccolo stralcio, se non che su mydeejay si facesse chiamare "unnuovoinizio" e che il suo blog fosse stato battezzato, in maniera assolutamente speculare, "unanuovame".
La decisione di iscrivermi al sito in questione, parecchio tempo dopo, maturava sull'onda della necessità, tutta personale, di ringraziarla, per aver inconsapevolmente rappresentato, a suo tempo, qualcosa di molto simile alla luce scorta da un viandante nel mezzo di un mare di nebbia.
Ma, quadri di Friedrich a parte, al mio arrivo in stazione il treno su cui intendevo salire era già partito, portando con se questa perfetta sconosciuta che assieme al suo blog, aveva deciso di migrare altrove.
"Difficile iniziare a scrivere questa lettera, forse perchè non la leggerai mai oppure perchè ripercorrere tutte le tappe della vicenda sarebbe troppo lungo, oltre che noioso. Era un pomeriggio come tanti, diciamo, tranne per il fatto che in pochi mesi si erano condensati troppi eventi negativi e non avevo proprio la forza di rialzarmi. O meglio, ci provavo, ma appena guadagnavo qualche centimetro un nemico invisibile vibrava su di me un mal assestato colpo di grazia, lasciandomi in bilico tra disfatta e riscossa, schiavo dell'ozio  e dell'autocompatimento. La parola blog era per me al tempo qualcosa di chimerico ed indefinito, figlio di un mondo, quello virtuale, che osservavo con lo stesso disincanto con cui ho sempre trattato la realtà. Credevo non ci fossero fermate intermedie tra partenze e arrivi. Ma mi son dovuto ricredere, perchè tu sei stata la mia fermata più bella. Non sai quanto mi abbiano emozionato quelle parole non dette al grande amore della tua vita, forse perchè  a parti invertite stavo vivendo la stessa situazione. Ho ripercorso con la mente il tuo itinerario dei ricordi attraverso i luoghi dell'abbandono, chiedendomi se la persona a cui avevi scritto quella lettera mai inviata, conservasse ancora qualcosa di te. Ma non c'era solo questo. Confuso e felice mi perdevo tra le storie della tua quotidianità, fatte di scelte lessicali stilisticamente perfette e originalità narrativo/esistenziale ai massimi livelli. E non da ultimo provavo uno strano senso di disagio di fronte alle tue lacrime per "i ricordi che emergono tutti assieme e fanno male" sulle note de L'amore conta di Ligabue. Da allora, ogni mio momento di vuoto assumeva le mille sfumature delle tue parole, nuvole sospese,  capaci di accendere nei miei occhi infinite attese. Mi sarebbe piaciuto conoscerti, forse perchè tra le pieghe del mio smisurato ego avevo la convinzione di poter essere meglio del destinatario di quel messaggio, oppure per dirti semplicemente grazie, per le decise pennellate di colore applicate alla mia tela in bianco e nero. Resta il fatto che tu per me saresti stata assolutamente giusta, forse per il modo di elaborare l'abbandono, oppure per quel mix d'ironia e disincanto così raro e prezioso, di cui erano intrisi i riflessi di te che ho avuto la fortuna di leggere. Conserverò a lungo il ricordo delle tue parole, ma soprattutto l'idea di te, di quegli occhi non ritrovati che Gian Maria Testa cantava ne "il passo e l'incanto" con un uomo che ripercorreva migliaia di chilometri a ritroso alla ricerca di uno sguardo, che gli aveva dato forza in unmomento difficile. Il suo viaggio, come il mio, si concludeva sulle note di un brano intitolato "3/4" che al pari della proporzione matematica, rappresenta l'idea di un amore incompiuto. Grazie"


lunedì 7 novembre 2011

Piovosamente

Cerco il bottone "trash" ma non lo trovo, nel disperato ma poco convinto tentativo di archiviare quest'antipatica settimana, fatta di buone azioni che non resteranno impunite e impegni accatastati come gli scatoloni di un trasoloco interrotto. Nel corso degli anni tutto, o quasi, è sempre sembrato scivolarmi addosso, almeno sul versante professionale, mentre su quello umano, fatti salvi gli eventi a forte grado di prossimità, ho sempre cercato di non drammatizzare, traducendo il tutto in una partecipazione emotiva di durata non superiore alle 48 ore solari. Nel senso che la notte  dormo  e di giorno, se del caso, faccio lavorare sinapsi e coscienza. Purtroppo, ad un certo punto della storia capita qualcosa che mi scombina i piani, ricordandomi che son nudo al di là di ogni evidenza,  prescindendo dalle proporzioni del guardaroba su cui pensavo di poter fare affidamento. Ho avvertito i primi spifferi Venerdì scorso, con un fax recapitato per sbaglio sulla mia scrivania e con lui la scoperta, scomoda finchè si vuole, che una coppia di amici, parte integrante della mia famiglia allargata, era in difficoltà. Decisione tragica del sottoscritto: prendere la situazione in mano e aiutarli a venirne fuori. Nell'assumere questa iniziativa avrei dovuto valutare il fatto che chi ben comincia è a metà dell'opera destinata a finir male. Così, adesso, dopo sani esperimenti di equilibrismo giuridico,  volti ad esercitare un positivo condizionamento su un cliente e una collega, mi ritrovo col prosaico pugno di mosche in mano. In fondo, quando si tratta di amici, il fatto di mettere in pericolo il mio scintillante deretano, non è considerata un'iniziativa degna di apprezzamento, almeno da parte dei diretti interessati. Non mi si contestano ne tempi, ne modi, ne risultati, accusandomi però di aver vinto solo ai supplementari, una partita che solo per affetto ho deciso di giocare al posto di qualcun altro. Ed arrivati a questo punto sono molto arrabbiato con me stesso, per non aver seguito la regola aurea del lasciar cuocere il mio prossimo nel sano brodo degli stolti, e forse anche per il dubbio, che mi assilla, di non aver fatto abbastanza. Tralasciando il fatto che il tutto mi costerà una discreta cifra, oltre a un'ottima bottiglia di Sauternes che ieri, per festeggiare la positiva chiusura della vicenda, ho porato a casa dei salvati/insoddisfatti. Alemo quella, però, se la sono bevuta.

martedì 25 ottobre 2011

Tu me souviens

Metti una sera  a cena tra amici. Che in fondo non è niente di speciale, se non una soluzione d'emergenza tra un aperitivo abortito, una domenica sera priva di punti qualificanti e un frigo desolatamente vuoto. Il fatto che la scelta sia poi caduta sull'unico posto aperto è un elemento accidentale, così come la circostanza che questa storia abbia come palcoscenico una città di 170.000 anime, dove se non proprio tutti conoscono tutti è quantomeno facile incontrarsi.  Capita poi in questi casi che per due giorni su tre, dopo alcuni anni si fa per dire di astinenza, trovi sulla tua strada quella persona che per un certo periodo aveva rappresentato un qualcosa di speciale nella tua vita, senza necessariamente assumere  una connotazione di imprescindibilità. Una ex, per farla breve, di quelle che  incontri e provi uno strano senso di disagio, come quando arrivi a una festa dove a malapena conosci il padrone di casa e hai il tacito onere di presentarti a tutti gli altri invitati, che dal canto loro faranno tutto il possibile per  rendere la cosa oltremodo imbarazzante. A questo aggiungerei che al primo involontario appuntamento col "passato" di due sere fa, sono giunto in compagnia della persona da cui al contrario, dopo quasi tre anni, non riesco proprio a prescindere. Ragione in più per analizzare i "SE" eventualmente connessi al re-incontro odierno, durante il quale ho notato un chiaro senso di ostilità, mascherato, peraltro piuttosto male, con una fredda indifferenza. Non che pretendessi di essere baciato e abbracciato come un familiare che ritorna a casa dopo anni passati in qualche sperduto angolo di mondo, ma allo stesso tempo mi lascia un pò perplesso il "quasi" scontro con una porta girevole nel disperato tentativo di evitare qualsivoglia contatto visivo col sottoscritto. Mi chiedo, cosa sia rimasto di me a tutte quelle persone che per un certo periodo, più o meno lungo, hanno fatto parte della mia vita e che un giorno, per comune accordo o scelta imposta hanno dovuto abbandonarla. Premetto che con Cri la faccenda ha una sua intima  complessità, forse perchè come tutte le cose che avrebbero potuto essere grandi è nata troppo presto e nelle circostanze sbagliate. Lei era esageratamente bella, empatica e impulsiva. Io quello di sempre, con qualche anno in meno e tanta immaturità in più. Le cronache raccontano che fosse reduce da una storia sbagliata con un tipo alternativo di nome Marco, immancabile protagonista degli excursus sentimentali di ogni ragazza italica  tra i 18 e i 25 anni. Correva l'anno 2003, biblioteca di giurisprudenza, mese di luglio. C'era  l'esame di diritto privato da preparare, un caldo pazzesco e il mio amico David a ricordarmi che la fuori ci aspettava la vita. A dirla tutta c'erano anche tre ragazze sedute nel tavolo accanto al nostro e quel vecchio volpone del mio compare non si era di certo fatto sfuggire l'occasione per abbordarle. La cosa lì per lì mi aveva anche seccato un pò, tutto preso com'ero dalla normativa generale dei contratti. E poi ero sufficientemente sicuro del fatto che come al solito, il tutto si sarebbe risolto in una straordinaria debacle, dopo una qualche tremenda gaffe del mio amico, un'autentica istituzione nella materia del "mettersi in ridicolo". Capita però che tra due oche giulive si possa anche trovare un'aquila, per dirla in termini puramente etologici. E mentre David mostrava alle pennute non volanti i risultati di anni passati a far dentro e fuori da una palestra, io volavo eccome, incrociando con quell'atipica ventiduenne le ali del mio pensiero. Ridevamo e commentavamo in maniera assolutamente dissacratoria i nostri improbabili amici, le loro posture, i discorsi assolutamente privi di contenuto. Lei mi trovava diabolico. Io la trovavo deliziosa. Passò una settimana, durante la quale avevo obbligato David ad uscire ogni santa sera con le amiche di lei, che al contrario pareva essere sparita nel nulla.  Nessun numero e nessun riferimento, la feroce determinazione di rivederla anche solo un'ultima volta e lo scomodo dubbio che Marco o chi per lui fosse tornato in pista. Una cosa va detta: non sono un uomo facile allo scoramento, io se voglio posso andare avanti per anni, sfidando la logica e l'evidenza, sostenuto dall'incrollabile volontà di raggiungere il mio scopo. Così, una settimana e molte manipolazioni dopo in un venerdì sera a caso, salendo su una  punto, avevo lo stesso sorriso di chi ha appena aperto la portiera di una ferrari. I più maligni sosterranno che  in entrambi casi, si sarebbe trattato sempre di mamma fiat, ma il mio gaudio era figlio di chi avevo trovato, a sorpresa, ad attendermi sul sedile posteriore. Da quella serata sono cambiate molte cose. Ho capito quanto possa esser bello anchilosarsi un braccio per permettere a qualcuno di dormirci sopra, che alcuni baci sulla guancia possono farti valutare l'idea di non lavare più il viso e che certe persone sono speciali e basta. Le cose tra noi sono andate avanti per un pò, tra alti e bassi,  come in quelle storie eccessivamente cerebrali dove, prima o dopo, finisci col pagare pegno a un destino che pretende concretezza. Non so se alla fine abbiano contato di più le differenze o le  reciproche similitudini, ma ho la certezza del fatto che tutti i problemi che lei si portava dietro, compresa una realtà familiare quantomeno complessa, abbiano finito col mettermi addosso una certa inquietudine. Seguivano un addio piuttosto scialbo consumato in una mattina di dicembre, una telefonata notturna che mi ricorderò finchè campo  e qualche infelice tentativo, da parte mia, di ricucire il rapporto. Così oggi, a distanza siderale dal nostro primo incontro, mi interrogo sulle ragioni dell'atteggiamento di questa sera. C'è ancora qualcosa che cova sotto la cenere? Oppure sono inconsapevolmente passato dalla categoria "ex cordialmente simpatici" a quella di "ex da odiare a tutti i costi"? Cosa resta di noi quando ce ne andiamo? Interrogativi destinati a restare senza risposte. Perchè nell'elaborare i nostri più profondi sentimenti spesso operiamo una selettiva negazione di tutti i ricordi che stridono con l'idea di lieto fine. Se è poi vero che quello femminile è un genere a parte allora  devo necessariamente piegarmi all'assioma cardine di mio nonno in base al quale " se l'uomo perdona e dimentica, la donna perdona soltanto..."

domenica 9 ottobre 2011

The Job's theory

Da anni indago senza successo sull'accellerazione che il tempo imprime a se stesso tra le 19.01 del venerdì pomeriggio e le 7.59 del lunedì mattina. Non hai neanche il tempo per rallegrarti del fatto che sia cominciato il weekend che subito, impietoso, il diabolico tintinnio della sveglia ti informa poco gentilmente che la settimana è ai blocchi di partenza. Questo è decisamente un periodo no. Troppo lavoro e troppo poco tempo per farlo. A volte mi sento come quel parente di Napoleone che a Waterloo, manco a dirlo, si era giocato un intero reggimento nel tentativo di espugnare una fattoria. Ecco, in questo periodo i miei assalti vanno tutti a vuoto. Ordisco complesse strategie, dispongo l'esercito in assetto da combattimento e parto alla carica. Solo che poi rimbalzo incredulo su un invalicabile muro di gomma e non ho nemmeno la possibilità di imprecare contro la malasorte. Sarà l'autunno? Sarò io? Questo è uno di quei giorni in cui mi interrogo con fare assorto sulle ragioni esistenziali dell'individuo, mentre mi risuona ancora nelle orecchie quell'idea di unire i puntini che il compianto Steve Jobs raccontava ai neolaureati di Stanford. Lasciarsi guidare dalla propria passione, essere "affamati e folli" e fare solo ciò che ci piace veramente. Questi i concetti chiave. Perchè la vita, secondo il vate di Cupertino, è un'intensa storia d'amore con noi stessi e solo assecondando le nostre inclinazioni più profonde possiamo  realizzarla appieno, al di là delle convenzioni e delle apparenze che la società vorrebbe cucirci addosso.
Davvero fantastico. Chiudo gli occhi e penso. Via da questa grigia cittadina, via
dal freddo, dalla nebbia e dallo smog. Compro un vigneto in Australia e me ne vado sulla west-coast a ritrovare me stesso, con otto mesi di sole all'anno  e l'irreale silenzio di un continente dov'è ancora la natura a farla da padrona. Potrei anche guidare un enorme pick-up che quì non riuscirei mai a parcheggiare e avere come migliore amico una versione riammodernata di Mr Crocodile Dundee...Ok, forse sto degenerando in senso cinematografico, ma il punto è proprio questo. Mi piace veramente la vita che faccio? E se la risposta è un si neanche troppo convinto cosa ci sarebbe da cambiare per migliorarla? Troppe cose. Perchè ogni cambiamento ha una sua malinconia, che consiste nel dover abbandonare una parte di noi. Con delle implicazioni difficili da affrontare, costituite dalle sovrastrutture che ci siamo costruiti negli anni: amore, amici e lavoro. A questo punto ti chiedi a che punto inizi il tuo diritto alla realizzazione individuale e dove potrebbero finire le aspirazioni e i sentimenti di chi ti sta accanto nel caso decidessi di portare a compimento la tua ricerca. Oppure un viaggio inizia proprio nel momento in cui uno decide di restare, capendo di avere delle più che valide ragioni per continuare la propria ricerca proprio nel punto in cui sembrava essersi interrotta? Jobs mi avrebbe risposto che i famosi puntini si possono unire solo guardando al passato e che qualunque sia la strada che sceglierò di prendere, la bontà del percorso sarà segnata dalla capacità che mostrerò nell'affidare le scelte importanti al mio cuore. Quindi, non senza una discreta quantità di punti interrogativi, caro Steve, voglio solo dirti grazie per aver reso la mia vita più semplice con le tue invenzioni e salutarti a modo mio, promettendo che per quanto possibile, non smetterò mai di cercare la strada per la mia felicità, in maniera affamata e folle.



mercoledì 5 ottobre 2011

Aperitivizzando

Detta così fa molto "Milano da bere", anche se poi, in realtà, siamo duecento chilometri più sotto nel mezzo della provincia emiliana, dove tra buffet che traboccano di salumi e un calice di malvasia si fa presto a dire aperitivo ma ancora più presto a far cena. Che a ben vedere anche lo spirito è completamente diverso, nel senso che ci si siede nel mezzo di quella solita via e da lì si fa a gara a chi saluta più gente, con la vittoria preventivamente assegnata ai soliti noti e tutti gli altri a inseguire. Il crocevia della movida è incastonato tra il Tribunale e tre quarti degli studi legali, così che certe sere immagino di veder arrivare  un giudice con un vassoio in mano a chiedermi se sono pronto a cominciare l'udienza. Il bello e il brutto di una città di provincia. Conosci tutti, tutti ti conoscono. Spesso, troppo spesso, la cosa si traduce nell'inciampare in coloro che ti stanno cordialmente antipatici e sentitamente ricambiano.  "Ciao carissimo, che piacere vederti!" (translated "Maledetto, non poteva esserci un modo peggiore  per chiudere la mia giornata che incontrarti!"). E così via, in un surreale balletto di finti sorrisi e malcelate ostilità. Il mio capo, che è un pò la "Radio Londra" della situazione ha sempre, in questi momenti, una parola buona per tutti. "Vede quella che è appena passata e ci ha salutato?" "Si." rispondo io e lui "Quella se la faceva col personal trainer e il marito poi, non le dico con chi andava lui..." Poi me lo dice, perchè se sei pettegolo fino in fondo non tieni neanche la pipì, figuriamoci un segreto.Le sue narrazioni mi fanno letteralmente sbellicare, perchè nei momenti di sconforto posso buttargli lì un nome a caso, sicuro del fatto che anche sul conto del poveretto di turno, ci sarà una storia decisamente imbarazzante pronta a farsi raccontare. L'informazione è potere, mi ripete di continuo, e tutti sembrano avere qualche seppur piccolo scheletro nell'armadio. Magari un giorno mi affibbierà qualche non meglio precisata conquista esotica! Stasera, però era F. ad essere in vena di conquiste, così che alle sette e un quarto io e un sempre più apatico G. siamo stati trascinati in una fantascientifica serata a sei. F. è lo scapolo d'oro del gruppo, alto, slanciato, ricco e brillante. Oltretutto è medico, elemento che da sempre fa breccia nel cuore delle donne di tutte le età. Ma c'è un ma. Ha avuto un grande amore finito male e da allora vive in un perenne stato di afasia comunicazionale. Non si innamora, come l'Eleonora di Bersani, così che alla fine lascia dietro di se una fila incredibilmente sostanziosa di candidate al trono pesate, misurate e trovate mancanti. A dirla tutta è anche inusitatamente "prugnoso" per dirla alla genovese, nel senso che se il mondo non gira come vuole lui punta i piedi e fa le bizze come un'infante, ma in fondo gli vogliamo bene anche per questo. G. invece è retrò. A trecentosessantadue gradi e mezzo. Veste parla e pensa come un gentiluomo ottocentesco. La sua vita è la musica (classica) e il suo approccio alle questioni di cuore richiama il Woody Allen del "Basta che funzioni". Per farla breve F. ha un'amica bruttina ma simpatica, la classica brava ragazza che tutti vogliono ma nessuno si piglia e, costei, ha delle amiche. Che poi io, strafidanzato, sia finito lì a fare da palo per gli altri due è un altro discorso, perchè in fondo, la parte divertente della serata è stato il "match" con queste tre trentenni atipiche e obiettivamente mal assortite, che sembravano uscite da un programma della De Filippi e non facevano niente per nasconderlo. Va detto che il nostro caro F. sperava, in cuor suo, di trovare ad attenderlo l'unica amica veramente carina di questo gruppetto in rosa che, come da copione, ha dato buca a venti minuti dall'uscita. Dunque, com'è andata? Io, che per le ragioni di cui sopra, assistevo alla partita come spettatore non pagante, sono stato subito intrappolato dalla matriarca del trio in un discorso completamente insensato sul fatto che le persone del posto dimostrassero nei suoi confronti una scarsa affezione. "Sono freddi, sono egoisti, non mi amano, non mi capiscono!". Il tutto seguito da un'accurata sequela delle sue frequentazioni di respiro internazionale, tutte pronte a sottoscrivere un giuramento a maggioranza bulgara, atto a comprovare l'assoluta simpatia della stessa. Il secondo atto si apriva e si chiudeva con un travaso di bile sugli uomini di oggi, che parole sue "non amano e non pagano". E' bastato dirle che la negatività che proiettiamo sugli altri, spesso, è il riflesso di un'insoddisfazione che parte da noi stessi, per guadagnarmi il suo odio eterno e zittirla per il resto della serata. G. intanto rispolverava il suo vecchio cavallo di battaglia. La lista. Per il mio amico tutto ha un'ordine di importanza e di grandezza e lo stilare una classifica lo aiuta a capire se e con quale ragazza provarci. La lista è mobile. Ed è anche articolata. Nel senso che prevede requisiti minimi per l'accesso, un piano d'approccio personalizzato e la possibilità di garantirsi una via di fuga in caso di pericolo. In cima al foglio va una sola, che qualora non si dimostri funzionale al progetto viene fatta scalare a beneficio di un'altra e così via. In questo caso in lista entrava la terza, che era la più carina e per logica la più oca. Ma un'intellettuale melomane come lui, non può rinnegare la lirica in nome del cuore. Così, dopo che l'interessatissima fanciulla confondeva Mendel (noto genetista) con Mendelssohn (noto compositore) ecco calare il silenzio...e l'idillio scivolare, manco a dirlo, sui piselli. Ed F.? Lui intratteneva la sua amica, più per evitare di misurarsi con le altre che per reale interesse.  Questione di reciprocità scombinate. Quantomeno perchè lei ha dato l'impressione, da inizio serata, di volerlo con se per gli anni a venire quell'insolito intrattenitore. Come tutte le storie sconclusionate questa non ha un finale di riferimento, se non la pizza che ci siamo mangiati poco dopo esser scappati con una scusa decisamente fasulla. Ma era pur sempre un aperitivo di provincia no?

giovedì 29 settembre 2011

My Friends

Non è tempo per noi, cantava un disilluso Ligabue qualche lustro fa e man mano che il tempo passa, mi rendo conto di quanto questa frase si adatti a raccontare delle nostre vaghe esistenze.
Personaggi degni di nota, in fondo, lo siamo sempre stati, quantomeno per quel modo assiomatico di intendere la vita, fatto di valori difesi con ferocia fondamentalistica e abitudini cristallizzatesi col passare delle stagioni.
Compagni in questo strano viaggio chiamato vita e fratelli nello spirito di un'amicizia che dura da dieci anni e non ne vuol proprio sapere di finire. C'è chi c'è stato sempre, chi è andato via per un pò e chi deve ancora tornare, ma quelle poche volte in cui riusciamo a vederci tutti assieme è come se il tempo tornasse indietro di sette/otto anni, quando la nostra massima preoccupazione era dove andare la sera e il concetto di mattina era sciolto da qualsiasi impegno che implicasse la privazione del sonno.
C'era quello che organizzava, anche se poi gli mandavamo tutto a rotoli, quello che si proponeva come regista di un film che gli attori finivano col recitare al contrario, chi doveva portare delle ragazze che non arrivavano mai e chi per dimenticarne una soltanto, cercava di affogarci in fiumi di pura depressione, che prontamente arginavamo con qualche scherzo di pessimo gusto, tanto perchè poi alla fine a prescindere dall'età, non fa mai bene prendersi troppo sul serio. Le nostre serate cominciavano a mezzogiorno e finivano alle sei della mattina dopo, con un sole che faceva capolino nella pasticceria sotto casa mia e noi che estenuati dal sonno ancora commentavamo qualche inenarrabile figuraccia della sera prima, oppure, da pessimi oracoli, cercavamo d'interpretare l'arcano significato del messaggio che la bella di turno -che per inciso non ci sarebbe mai stata- aveva inviato a qualcuno del gruppo.
 Otto era il numero magico, suscettibile di modifiche al rialzo a seconda delle serate e degli anni, dato che come in ogni gruppo che si rispetti molti pezzi, soprattutto quelli sbagliati, si sono persi per strada. C'erano i ritrovi fissi, tra cui una rumeria del centro dove serviva ai tavoli una mia ex -molto ex- e nessuno voleva replicare il mio ordine nel timore che dietro al bancone qualcuno sputasse nel bicchiere sbagliato. Poi una trattoria di montagna dove si spendeva poco e si mangiava pantagruelicamente, con l'unico inconveniente che al ritorno nessuno era  in grado di guidare e quaranta e più chilometri di curve mutavano in un vero e proprio viaggio delle speranza. Degne di nota pure le cene a casa del Cris, dove un gatto nero girava sotto il tavolo e la mamma  preparava con la massima tranquillità un piatto di carbonara alle tre di notte, quasi fosse la cosa più normale del mondo. Gli eventi sportivi poi erano vissuti con religiosa abnegazione, assegnando rigidamente i posti a sedere sul divano in base al presunto raggiungimento di una polarizzazione favorevole alla nazionale di calcio o alla ferrari.
E infine c'era Ermes, il fornaio/filosofo che ci sfamava al termine delle nostre serate di gloria, quando a mezzanotte qualcuno poteva lanciare l'idea di farsi duecento chilometri per arrivare in riviera e tornare indietro, sicuro che almeno due dei presenti, lo avrebbero  seguito. Lui mi manca davvero tanto, perchè la morte ti lascia solo un ricordo sbiadito di chi, inconsapevolmente, rendeva migliori i tuoi vent'anni. Ricordo la sua focaccia "speciale" che lui però non mangiava mai perchè "sò quel che ci metto dentro..." e il prendermi bonariamente in giro dicendo "Tu mangi la pizza con la crosta! Sei mica lavativo come quelli là!". Così capita che tutte quelle sere in cui usciamo, cercando malamente di replicare le serate dei nostri anni migliori, abbiamo la brutta sensazione di vivere in una storia senza finale, fatta del numero trenta che incombe pericoloso, del sonno che ci coglie ben prima di mezzanotte e della nostalgia declinata al passato. Poi, riflettendoci un pò, ci accorgiamo di essere rimasti i soliti adorabili idioti, ancorati all'idea di un'amicizia che travalica il tempo e gli eventi, forte della voglia di stare assieme e di sfottersi reciprocamente, così che in mezzo ai nostri improbabili discorsi, si insinua un piccolo ma significativo sorriso.




giovedì 22 settembre 2011

(500) days of summer

Sarà quest'idea di autunno che incombe, nascosto tra i raggi dell'effimero sole di fine settembre, oppure una serata tra amici nel Pub che dieci anni fa raccontava i sogni e le illusioni dei nostri anni ruggenti, ma ieri, dopo un paio di birre scure e un resoconto completo delle figuracce orgogliosamente collezionate dal 2001 in poi, mi è venuta voglia di divagare un pò. Accanto a noi si era appena seduto un gruppetto di matricole o forse sarebbe meglio dire di matricoli, dato che il più sgamato dei cinque aveva artatamente combinato un appuntamento con quattro universitarie, fermamente intenzionato a predare la più carina. Intanto si dava un bel daffare per minimizzare gli eventuali danni collaterali che i suoi fidi compari avrebbero successivamente prodotto. Questi ultimi, dal canto loro, davano piena prova del fatto che le preoccupazioni del "capitano" fossero più che fondate, nel senso che il tentativo  del più intraprendente di accaparrarsi i posti centrali, speranzoso di essere il beato tra le donne della situazione, dava il la a un deleterio processo d'imitazione da parte degli altri tre, originando quella che per il resto della serata io e i miei amici avremo chiamato "2 di picche-zone".
In questa singolare armata brancaleone spiccava il quinto elemento, volontariamente assorto nei propri pensieri e autoesiliatosi nell'angolo più remoto del tavolo, ignaro del fatto che spesso  l'anticonformismo e la distrazione, ci conducono su strade che mai avremmo sognato di percorrere.
E poi arrivano le ragazze, a colorare una serata fino ad allora priva di forma e sostanza, secondo le dinamiche evolutive che noi, due tavoli più in là, avevamo prudenzialmente previsto. Così mentre la più vistosa delle tre flirtava spudoratamente col capitano di ventura e le due centrali creavano un bel muro di ghiaccio dietro cui imbrigliare le malcelate velleità di conquista dei tre fenomeni al centro del tavolo, ecco la quarta scambiarsi uno sguardo col quinto, che come un personaggio baricchiano sembrava soltanto voler assistere alla propria vita, ritenendo impropria qualsiasi ambizione a viverla. Purtroppo per lui, però, quello in questione era uno di quegli sguardi che non si possono ignorare, forse perchè lei sembrava emergere dall'aurea mediocritas del gruppetto in rosa per il fatto stesso di avere con se un libro di Sepulveda e  un non so che di deliziosamente retrò che traspariva dal suo essere donna. Fatto sta che i due iniziavano a viaggiare su un binario parallelo, mescolando due mondi fatti di identiche contrapposizioni e dando la netta impressione di aver trovato, non senza restarne sorpresi, ciò che da tanto tempo, in modi diversi, andavano cercando.
Immancabilmente, a 20 anni, conosci una persona che ti è speculare in tutto e per tutto e  si incastra come il pezzo mancante di un puzzle in quegli angoli di te che fino ad allora credevi dovessero restar vuoti. Seguono dei mesi e forse anche degli  anni intensi come mai nulla  era stato e più sarà. Purtroppo un bel giorno (o brutto a seconda a del meteo) ti svegli e tutto finisce. Senza colpe e senza motivi, ma solo perchè la perfezione ha tempi di conservazione brevi e come le leggende tende a morire giovane  e in maniera teatralmente drammatica. Niente tragedie però. Verso i trenta scopri che la vera felicità è un sereno senso di sicurezza che raggiungi con qualcuno che non ti assomiglia poi tanto, ma è capace di farti trovare e provare quello che io chiamo equilibrio.
Sarà per questo che rientrando a casa mi è tornato in mente un film di qualche anno fa, (500) days of summer o "500 giorni insieme", che raccontava, appunto, di come il concetto di anima gemella a volte sia  il frutto di un tremendo malinteso. Quantomeno se sei idealmente convinto che la donna della tua vita si chiami Summer e poi, molto tempo e molte lacrime dopo, scopri che c'era un'Autumn ad attenderti.
Così, stamattina, mentre me ne andavo al lavoro con l'Ipod nelle orecchie, ho riascoltato tutta la colonna sonora del film di cui sopra, che per inciso include cover e versioni originali di alcuni dei più bei pezzi scritti tra gli "80" e i "90", spaziando dagli Smiths a Carla Bruni.
E fu così che ripassando nei pressi del pub incriminato, sarei voluto tornare indietro di una sera e facendo il verso alla voce narrante del film recitare ai due piccioncini la frase: "questa è la storia di un lui e di una lei, ma tanto vale chiarirlo subito: non è una storia d'amore".

martedì 20 settembre 2011

Una giornata di ordinaria follia.

Se dovessi lanciarmi in un parallelismo cinematografico, direi che questo strano martedì di fine settembre assomiglia pericolosamente al film "fuori in 60 secondi" dove un Nicholas Cage pieno di risorse doveva rubare in meno di un minuto, una quantità potenzialmente illimitata di supercar, possibilmente senza farsi beccare.
Posto che gli esiti della mia giornata lavorativa son ben lontani da quelli del nostro caro divo di Hollywood, va comunque detto l'adrenalina, oggi scorreva a fiumi. La mia prima lotta impari è scattata alle nove di mattina, di fronte a un plotone di ufficiali giudiziari che non volevano prendere in carico un atto. Come tutti gli appartenenti alla PA ciascuno di loro aveva una motivazione diversa -ma comunque inconsistente- a sostegno della propria tesi negatoria. La soluzione, come sempre, l'ho trovata paventando l'intervento di un non meglio specificato funzionario, che ha gettato nel terrore (con un bluff colossale) ben quattro coriacei impiegati. Poi c'è stato un fantastico tour della bassa padana col mio capo, che guida come un pilota da rally, ma è distratto come un quindicenne innamorato.
Morale della favola, da pessimo copilota, ho passato tre quarti del viaggio a pregare i miei santi in paradiso, appiattito come un gatto tra sedile e finestrino, rivivendo, nel sorpasso da roulette russa e successiva frenata -a sfiorare un trattore- il film della mia vita.
Il pomeriggio, in puro stile amarcord, ha aperto le danze ri-portandomi, dopo tanti anni,  al cospetto di una vecchia conoscenza universitaria, che a conferma di quella teoria secondo cui, le cose come le persone lasciate a se stesse peggiorano, ha risposto a un mio affettuoso ciao dandomi del lei, come a un imbonitore che si presenta davanti alla tua porta per vendere qualcosa che non vorresti mai comprare. Questa è forse la situazione che più i tutte mi ha lasciato una brutta sensazione addosso, perchè ancora ho il brutto vizio di credere che i rapporti che hai consolidato da ragazzo, non possano essere sporcati dalle contraddizioni del diventare grande. Tutt'attorno, la sottile e immancabile sensazione di fluttuare nel vuoto, dopo aver attentamente soppesato gli impegni da portare a termine entro la settimana, realizzando, nei fatti che "NON CE LA POTRO' MAI FARE". La coda (finale) è degnamente rappresentata da  un marito che accusava la moglie di menarlo. Mi veniva da ridere, ma non l'ho fatto, anche se poi, arrivando a casa non ho potuto esimermi dall'ascoltare "la mia ragazza mena" degli articolo 31, chiedendomi quali arcane motivazioni possano condurre un essere pensante a sposarsela, la piccola boxeuse in questione....