venerdì 11 maggio 2012

Musicalmente parlando

Play. Una vita in note: titolo tuttosommato calzante per un'eventuale romanzo autobiografico o quantomeno una chiave di lettura utile a cronistoricizzare i miei ultimi quindici anni di vita. D'altra parte ognuno di noi ha avuto un artista, un album o forse anche solo una canzone capace di tracciare una linea di separazione e catturare un momento, sancendo un finale amaro o un inizio promettente. In principio fu il nulla. Ed effettivamente -citazioni bibliche a parte- nei primi quattordici anni e tre quarti di vita la mia ignoranza musicale ha raggiunto proporzioni monumentali. D'altra parte, tra un papà che tifava Carosone e una mamma nostalgica di Battisti ero talmente stretto nella morsa degli antagonismi da non voler accettare nessuna lusinga musicale. Poi, il destino,  manifestandosi sotto le sembianze di mio zio,  in una sera di aprile mi tendeva la mano brandendo un cd pieno zeppo di MP3, un completissimo ed incoerente ensemble di tutto ció che l'universo musicale aveva partorito tra il 68 e metà anni 90.  In condizioni normali avrei preferito che il mio svezzamento sonoro fosse affidato a un personaggio da "attimo fuggente" ma il parentado, al tempo, aveva come massima espressione di creatività questo quarantenne afasico e depresso.  Peró devo dargli atto di avermi aperto un mondo: Cat Stephens, The Smits, gli Exstreme, Regina Spektor, Simon & Garfunkel, i Dire Straits e chi piú ne ha piú ne metta.  Poi è arrivato il mio primo lettore cd portatile, che al tempo ti faceva sembrare anni luce avanti rispetto al resto del mondo e con lui -correva l'anno 1996- un album degli Jarabe de Palo. Quelli della Flaca e di Depende (poi italianizzato in Dipende da Jovanotti) tanto per rendere l'idea. Quel disco, per una serie di circostanze contingenti è diventato la colonna sonora di quell'estate, ma soprattutto un oggetto ricco, per chi scrive, di un forte valore affettivo. Al di la dei gusti personali, due cose mi sono rimaste dentro: le didascalie esplicative sotto i titoli delle varie canzoni, tipo "Depende -o di quanto siano relative le verità assolute" e la prefazione scritta dal leader del gruppo sottoforma di lettera ad un amico scomparso: "Sono successe molte cose in questi ultimi anni, molti voli, molti dischi e molta gente nuova. A volte mi domando se sia questo il successo. Già, successo. Curiosa parola. Per molti implica la possibilità di conseguire fama, potere o ricchezza. Ma secondo noi, il vero successo consiste nel fare ció che piú ci piace, la musica e proseguire lavorando su questo cammino. Alla memoria di S.A., poeta, cantante, sognatore, ma soprattutto pazzo. Sappi che non ti abbiamo dimenticato". Poche righe, belle, sincere e toccanti, che oggi come allora somo capaci di raccontare il senso piú profondo dell'amicizia.  E poi? Migrato dalla casa paterna verso i lidi universitari l'ascoltatore di riferimento (ossia io) perde la propria connotazione un pó retró per abbracciare le novità  contemporanee, distinguendosi sempre per l'ostinazione dimostrata nella ricerca di percorsi musicali alternativi. Cosí arrivano, Alex Lloyd, semisconosciuto cantautore australiano noto per la sua somiglianza con Elvis e per essere stato mollato dalla ragazza mentre apriva un concerto di Ligabue, Adam Green, che oltre ad aver collaborato alla colonna sonora di Juno ha scritto una canzone al vetriolo su Jessica Simpson, rea di avergli rifilato un dolorosissimo due di picche agli Mtv music awards e, dulcis in fundo, i Giant Send che, come da presentazione di Gene Gnocchi, sono famosi solo nei piú sperduti angoli del Texas. A dir la verità ce ne sarebbero anche altri, che per ragioni di spazio e tempo non citeró adesso. This is the end? Neanche per sogno. Perchè nei miei ultimi 7/8 anni ci sono alcuni cantanti che piú di altri mi hanno accompagnato in questo strano percorso fatto di tante salite e poche discese.  In coda metterei Gian Maria Testa e Vinicio Capossela, due poeti nel senso piú assoluto del termine, di cui peró ultimamente, non sono riuscito a capire alcune scelte creative. Poi ci sono i cantanti nordici, che meriterebbero un post a parte. Adoro i King's of Convenience e i loro accordi essenziali e ritmati, che parlano di primavera anche se a quelle latitudini fa un discreto freddo. I Belle & Sebastian hanno per me un piglio decisamente piú invernale, come un bicchiere di rosso bevuto a Natale a casa dei nonni, magari davanti a un camino acceso, radunando nella tua testa ansie e speranze, ma lasciando che lo sguardo e il cuore si perdano nella neve al di là della finestra. I Sigur Ros meriterebbero un capitolo a parte. Complessi, introspettivi fino all'estremo e capaci, come nessun altro, di farti sentire in quell'indefinito angolo d'Islanda in cui compongono le loro melodie, che per certi versi trascendono il concetto stesso di musica, almeno per come la maggior parte di noi è abituato a intederla. Ed infine c'è Damien, inteso come Damien Rice, che è Irlandese e con tutti gli altri non c'entra assolutamente nulla, ma con me ha un conto aperto. Perchè la sua musica di velluto e le sue parole, taglienti come rasoi,  hanno raccontato in qualità di voci narranti il piú grosso equivoco sentimentale della mia vita. Contribuendo, nel bene e nel male, a rendere indelebile il ricordo di una persona che a distanza di parecchi anni, tutte le volte  in cui mi concedo un momento di vuoto, ne approfitta subito per riempirlo. E questo basta. Stop.

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